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venerdì 18 settembre 2015

Qui Atene, finalmente.

La città che ha inventato la democrazia si prepara al voto anticipato, mentre l’interesse generale scema e le proiezioni sono sempre più sul filo del rasoio.

Ad Atene la sensazione è di calma, almeno apparente, i vecchietti sbirciano dalle caffetterie i lavori per installare il parco per il comizio di chiusura campagna elettorale di Alexis Tsipras in Piazza Syntagma, questa sera, le donne continuano ad andare al mercato e i ragazzi continuano a fare le ore piccole nei bar di Gazi.

Ma a guardarsi intorno nell’aria si percepisce il disagio di una città e di una nazione intera: serrande abbassate in anticipo, netturbini e spazzini in sciopero perché non ricevono uno stipendio, la città sempre più abbandonata a se stessa, i prezzi impennati nei supermarket dopo l’aumento di dieci punti dell’iva, la paura di tornare a fare le file ai bancomat, la sfiducia nelle istituzioni europee dipinta nei murales, le organizzazioni che fanno incetta di fondi europei per progetti inesistenti, i poliziotti ventenni con uno stipendio da 500 euro al mese che presidiano i luoghi sensibili con giubbotti anti proiettile e pistole.

A gennaio i greci si sono stufati dell’attendismo dei partiti tradizionali, concedendo a Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, una vittoria schiacciante, fiduciosi nelle potenzialità del primo ministro quarantunenne e nel suo entourage, uno su tutti il ministro all’economia Yanis Varufakis.
Otto mesi, un referendum e un altro affondo di austerity dopo, la situazione è molto diversa: Syriza è spaccata, 159 deputati del partito non hanno rifiutato di sostenere il piano di salvataggio imposto alla Grecia nonostante il “NO” al referendum, spingendo la coraggiosa mossa di Tsipras che ha abbandonato la poltrona per tastare il polso della popolazione con una nuova tornata elettorale.

L’economia della Grecia è all’orlo del collasso: il PIL è sceso del 25%dal 2010. La disoccupazione è al 26%, gli stipendi sono calati quasi del 40% le pensioni del 45. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà. Senzatetto e tossicodipendenti occupano strade e case sfitte, mentre il welfare non riesce s sostenere i sussidi di disoccupazione né ad occuparsi di persone in palese stato di indigenza.
Fra i giovani, sotto i 40 anni, il sostegno a Syriza è crollato: la base del partito di Tsipras si sente tradita dopo che il primo ministro ha accettato il piano di aiuti rigettato con il referendum. 

Come andranno le elezioni di domenica, dipende da questi scontenti. Dai ragazzi che disertano gli stand dei partiti per darsi alle birrette e alle discussioni politiche nei bar, dai “duri e puri” che potrebbero convergere nella sinistra radicale, nel partito comunista KKE, o nell’estrema destra di Alba Dorata, che spopola fra i giovanissimi più di piercing e tatuaggi.
Lo scenario più probabile a detta degli esperti ma soprattutto dei cittadini che andranno alle urne nel week end, è un governo di coalizione. Syriza potrebbe spuntarla come primo partito, ma nei sondaggi è ben lontana dal 40 % dei seggi che servirebbe per governare il paese se entrassero al governo molti dei partiti minoritari. Meno di due punti dietro nelle proiezioni c’è Nea Dimokratia, partito di centrodestra, vicino al PPE: una coalizione fra le due parti opposte potrebbe essere l’unica soluzione per un governo stabile, che a Tsipras però, fa storcere il naso. Unità popolare, costola di Syriza estremamente a sinistra, e il KKE hanno comunque una buona base, così come, neanche a dirlo, Alba Dorata che come nelle migliori tradizioni di estrema destra cerca capri espiatori negli immigrati e auspica l’uscita dall’euro.

Quello che è chiaro è che lo spirito del “OXI” del no all’austerity europea, non è tramontato, anche se l’affluenza alle urne rischia di contrarsi ulteriormente.

Quello che è incredibile invece, guardando all’Italia delle poltrone a vita e a questa Grecia coraggiosa, è un primo ministro eletto a maggioranza assoluta che lascia la carica, per essere certo che davvero la sua politica sia quello che il popolo vuole. Allora sei ancora qui, Democrazia, è bello conoscerti, finalmente.

venerdì 11 settembre 2015

La Turchia sull'orlo del baratro, e il silenzio internazionale.

Ci sono occasioni che nella vita hanno lo stesso effetto del lancio di un sasso in uno specchio d’acqua. Da un punto centrale, a volte molto piccolo, irradiano increspature che raggiungono la riva del lago.

Io ho avuto una di queste occasioni, poche settimane fa: il mio sassolino lanciato è stata la partecipazione all’European Forum di Alpbach. Gli spunti, gli incontri, con ragazze e ragazzi di 75 nazionalità diverse, ambasciatori, economisti, artisti, filosofi, esperti in campo umanitario, i racconti in prima persona di guerre, occupazioni e carestie, emersi da quelle giornate, meritano di essere riportati, ma concedetemi di farlo più avanti.
Oggi, c’è qualcosa di più urgente di cui parlare.
Due delle ragazze che ho conosciuto al Forum, Ege e Berfin, vivono nella bellissima Turchia. E’ a loro che mi sono rivolta cercando di capire davvero cosa sta succedendo in questo Paese che è europeo quando fa comodo e straniero quando è scomodo.
Perché in Turchia sta succedendo qualcosa, qualcosa di molto grave, qualcosa di molto subdolo, qualcosa di potenzialmente deflagrante per il futuro della nazione, e del panorama internazionale con essa.
Tutti, o almeno chi si informa e chi legge questo blog, ricorderanno quello che è successo a Gezi Park, le proteste, i gas urticanti e le granate assordanti sugli studenti che si opponevano alla politica dittatoriale del premier Tayyip Erdogan, ma il silenzio colpevole dei media internazionali sta ignorando totalmente le vicissitudini delle ultime settimane.

Il premier Erdogan ha scavato una fossa per la Turchia nel corso del suo governo, rendendo il paese meno sicuro e meno stabile, continuando ad accusare gli altri dei problemi del Paese nel tentativo di accentrare su di se quanti più poteri possibili.
Lo scorso 24 luglio USA e Turchia hanno annunciato l’inizio del dispiegamento militare per affrontare la minaccia dell’Isis. Quello che Erdogan sta pianificando, in realtà, è un sistematico attacco alla minoranza curda, rappresentata dal PKK, usando come scusa l’uccisone di due poliziotti da parte di miliziani del PKK, che ha a sua volta accusato le forze di polizia turche di aver permesso l’attacco dell’Isis al centro giovanile curdo che lo scorso luglio è costato la vita a 32 ragazzi.

Ora, complici le manipolazioni del “presidente” la violenza nell’est paese sta andando fuori controllo, e sta contagiando l’intera nazione. Nelle ultime 48 ore il sistematico tentativo  di Erdogan di screditare il partito filocurdo  HDP, che con il 13 per centro che potrebbe ottenere alle elezioni del prossimo primo novembre potrebbe infrangere l’obbiettivo presidenziale di  una maggioranza assoluta, sta portando la popolazione ad assimilare l’HDP ai curdi e al conflitto separatista che è costato 40.000 morti negli ultimi decenni alla Turchia e che sta mietendo vittime a decine nelle ultime settimane, anche fra i civili, dopo il riaccendersi delle ostilità. 

Ieri 10 sedi del partito HDP sono state date alle fiamme da nazionalisti turchi, e tutto il materiale elettorale è andato in cenere nella sede di Istanbul.
Di fatto, il paese è sull’orlo di uno stato di emergenza: c’è un vero e proprio conflitto armato in atto nella parte est e sud del paese, fra le forze armate del Pkk e quelle turche.
Il processo di pace con il Pkk è stato sempre sul filo del rasoio, perché la maggior parte dei turchi è molto sensibile a tematiche quali l’unità nazionale, e la rottura del processo di pace da parte del PKK e le vittime nei conflitti che ne stanno seguendo stanno confondendo la popolazione che sta indirizzando la propria tristezza e rabbia nella direzione sbagliata, verso l’HDP e le minoranze curde.

E questo, è esattamente ciò che Erdogan voleva, e sta succedendo: sta facendo leva sullo spirito nazionalista turco, che conosce molto bene, per eliminare il proprio avversario politico alle prossime elezioni, che potrebbero finire con l’essere rimandate con la scusa di uno stato di emergenza.
Tutta via, una buona parte dei cittadini, sia fra i curdi che fra i turchi, sta continuando a chiedere una risoluzione pacifica della situazione, che sta costando molto in termini di perdite civili ed economiche all’intero Paese.

“La cosa che sarà veramente difficile da frenare- mi ha raccontato Ege- è la forte identità nazionalista delle persone con una forte tradizione unitaria. Tayyip (Erdogan) sa di aver scatenato la bestia: vuole mettere le persone l’una contro l’altra per distruggere la pace e la sicurezza del Paese. L’identità nazionale è una spinta più forte della religione in Turchia, e Erdogan lo sa. Non ha giocato questa carta prima perché non ne ha avuto bisogno, fino ad oggi l’HDP non aveva mia minacciato la sua sovranità elettorale.”

Non è certo un nuovo escamotage, quello di usare il grimaldello dell’identità nazionale per forzare una situazione sociale sostanzialmente pacifica, inasprendo i conflitti etnici e sociali per rendere la politica instabile e avere la scusa di accentare i poteri su un solo individuo.

Lo abbiamo visto succedere in una paio di guerre mondiali e nelle recenti guerre balcaniche.

Non possiamo permettere che la comunità internazionale, ancora una volta, resti a guardare, mentre la Turchia precipita verso la guerra civile e il totalitarismo, la stessa Turchia che è stata ad un passo dall’ingresso in Europa, che sta tamponando l’emergenza migranti, che sta pagando il prezzo più caro nella guerra con lo stato islamico. La stessa Turchia in cui i miei amici si informano e informano, chattano su Facebook e si tingono i capelli di blu, come i loro coetanei europei.

Non possiamo permettere che per non complicare i rapporti economici e diplomatici UE e USA ignorino l’incombete rischio di una crisi democratica, politica e sociale, di valori e di libertà.

English version

There are occasions in life that have the same effect as throwing a stone into a pond. From a central point, sometimes very small, they radiate ripples that reach the shore of the lake.

I had one such occasion, a few weeks ago: my stone launched was the participation at the European Forum Alpbach. The ideas, meetings with girls and boys from 75 different nationalities, ambassadors, economists, artists, philosophers, experts in the humanitarian field, the first-person tells of wars, occupations and food crisis, emerged from those days, deserve to be reported, but allow me to do it later.
Today, there is something more urgent to talk about.
Two of the girls I met at the Forum, Ege and Berfin live in the beautiful Turkey. I ask them their point of view, to really understand what's going on in this Country, considered so European when is convenient and foreign when it is inconvenient.
Because something is happening in Turkey, something very serious, something very sneaky, something potentially explosive for the future of the nation, and of the international scene with it.
All, or at least those who are informed and who use to read this blog, remember what happened in Gezi Park, the protests, the stinging gas and stun grenades on students who opposed the dictatorial policies of Prime Minister Tayyip Erdogan, but the guilty silence of the international media is totally ignoring what’s happening in the last weeks.
Prime Minister Erdogan has dug a hole for Turkey during his government, making the country less safe and less stable, keep blaming someone else for the country's problems, trying to concentrate on himself as many powers as possible.

On July 24 the US and Turkey have announced the beginning of military deployment to fight the Is. What Erdogan is planning, actually, is a systematic attack on the Kurdish minority, represented by the PKK, citing the killing of 2 policemen by the PKK. The PKK claims that the police officers were collaborating with ISIS, allowing the bombing of a Youth Center in Suruc earlier in july that killed 32 people. 
Now, thanks to the manipulations of the "president", the violence in the east of the Country is out of control, and it is affecting the entire nation. The Erdogan’s systematic attempt to discredit the pro-Kurdish party HDP, which expects a 13% in the elections of the next November 1st and could break the goal of a presidential absolute majority, is leading the population to assimilate “HDP” to the Kurds. It means to assimilate HDP to the conflict that costed 40,000 lives over the past decades in Turkey, and to its renewed hostilities. Yesterday Turkish nationalists set ten HDP party headquarters on fire, and all the election’s material went to ashes in the central office of Istanbul’s fire.
In fact, the country is on the brink of a state of emergency: there is a real armed conflict in the east and south of the country, between the armed forces of the PKK and the Turkish one.

The peace process between PKK and Turkish was always on thin rope, because the majority of Turks are very sensitive to issues such as national unity. The break of the peace process by the PKK and the fallowing victims in the conflicts are confusing the people, who are addressing their sadness and anger in the wrong direction, toward the HDP and Kurdish minorities.
This is exactly what Erdogan wanted, and it is happening: is relying on the Turkish nationalist spirit, that he knows very well, to delete his political opponents in the upcoming elections, which could end up being postponed with the excuse of a state of emergency.
However, a huge part of the citizens, Kurds and Turks, is continuing to seek a peaceful resolution of the situation, which is costing a lot in terms of civil victims and economic costs.

"The thing that it’s very hard to stop- told me Ege- are people with strong national feelings and beliefs in Turkey once they’re unleashed, and  Tayyip (Erdogan) knows that and has leashed the beast and wants people to destroy each other’s sanity and peace. National identity is even stronger than religion in Turkey, and Erdogan used the latter with his party but didn’t need to use the first because HDP wasn’t around until a couple of years, now he is using the first because HDP is a threat to his tyranny”

It is certainly not a new trick, using the national identity as a crowbar to force a situation essentially peaceful, exacerbating ethnic and social conflicts to make the political situation unstable and have an excuse to accent the powers on one person.

We saw this happen in a couple of world wars and in the recent Balkan wars.

We cannot allow the international community just stand and watch, once again, while Turkey rushes toward civil war and totalitarianism, the same Turkey that was just one step far from the entrance in Europe, who is dabbing the migrants emergency, which is paying one of the highest price in the war with the Islamic State. That Turkey where my friends try to being informed and inform, chat on Facebook and dye their hair blue, like all the other European young people.


We cannot let EU and US put diplomatic and economic interests first, ignoring the risk of a crisis of democracy, political and social values ​​and freedom.

giovedì 10 settembre 2015

Sarajevo val ben un pensiero.

Due mesi di assenza ingiustificata, o meglio, giustificata solo da un periodo di viaggi incontri così intenso da non lasciarmi il tempo per scriverne.

La prima delle mirabolanti avventure estive della Bisbetica, sono stati i Balcani.
Quei Balcani, terra d’oriente e d’occidente, quei Balcani vicini e lontani, quei Balcani ponte e muro, quei Balcani teatro di una delle più vergognose pagine della storia europea e mondiale degli ultimi vent’anni.
I Balcani che mi hanno emozionata, sedotta, commossa.

La Bosnia, così fiera e impegnata nel tenere il passo europeo senza perdere la propria identità, la Croazia, attraversata in moto, con i porticcioli turistici a fianco murales che a Split incitano ancora gli "Aiduchi".
Una realtà fitta densa, come se fosse tutto contratto, la montagna e il mare, le zone rurali e la città, il passato recente e quello antico, la modernità e la tradizione, il turismo e la guerra, la bellezza e l'orrore. Mostar, e soprattutto Sarajevo, mi sono rimaste nel cuore.

A Mostar la storia bosniaca recente si è raccontata per caso, per bocca di Edjin, un quarantenne che abitava già lì, nella stupenda città sul fiume Narenta, durante la guerra degli anni novanta che ha visto spaccarsi la secolare cultura multietnica bosniaca per le spinte separatiste sorbo/croate e i clamorosi fallimenti dell’Onu. Mi ha fermata mentre fotografavo un palazzo ancora sventrato dalla granate a pochi metri dalla via dei turisti, mentre una madre e un figlio rom frugavano in un cassonetto a dieci metri dalla bancarella dei selfie sticks. La pulizia etnica, la guerra voluta da pochi ma che ha sconfitto tutti, la sua versione della storia.

I cecchini che sparavano alle donne che andavano a prendere l'acqua, la città divisa in due dai bombardamenti, famiglie e amici messi su due lati diversi del fronte, e poi il fosforo bianco, le schegge di granate che lasciano cicatrici nella carne e nell'anima, l'inettitudine degli organismi internazionali, i gruppi di violenti che hanno cambiato il destino di nazioni intere.

Non c’è perdono nelle parole di Edjin, o meglio, c’è per i vicini e gli amici serbi, arruolati a volte contro la loro volontà nelle milizie, c’è per i cittadini croati, vittime anche loro di un leader spietato, ma non c’è perdono, o possibilità di ammenda, per l’Onu, la Nato, l’Unione Europea, i Paesi “occidentali” che sono rimasti a guardare, che hanno lasciato proseguire per anni una guerra che sarebbe potuta durare dieci giorni.

E Sarajevo... non credo che al mondo esista un'alta città con quell'anima. E' come se ti mettesse davanti alla storia in persona, questa città avvolta da fantasmi e profumi, da foreste e cimiteri: le sinagoghe fianco a fianco ai minareti, alle chiese ortodosse, ai campanili, le lapidi bianche islamiche mescolate alle tombe cristiane negli immensi cimiteri che circondano la città, i niquab e gli hotpants nelle vetrine, i buchi di proiettile nei muri dei fast food,i segni delle bombe fra i banchi del Markele, la biblioteca risorta dalle proprie ceneri come la Fenice.
E' una storia così lunga da rischiare di dimenticarne qualche pezzo, per scelta o per semplice oblio. E' allo stesso tempo teatro di guerre, sconfitte e sofferenze, come di speranza, e convivenza e solidarietà fra oriente e occidente, etnie, religioni.
Fra i profumi che escono dai caffè e dalle fumerie di Narghilè, si racconta piano piano, quasi svelandosi, giorno dopo giorno, timidamente.
Inat Kuca e la sua storia di resistenza, la biblioteca che non ha più paura, i mercati e i caffè, i musei e le birrerie, il quartier generale dei serbi sulla collina. Mi hanno raccontato tutti una parte di storia.
Un grande senso di impotenza e di ingiustizia mi ha pervasa dopo la visita al museo storico, l'unico che dedica una "mostra" all'assedio degli anni novanta (a parte la trappola per turisti all'uscita del tunnel della speranza). L’edificio, ancora crivellato dai colpi di mortaio, patisce un'evidente carenza di fondi in contrasto con uno spirito intraprendente. È difficile da trovare e in alcuni punti fatiscente, evidente prova di una colpevole disattenzione internazionale verso chi potrebbe raccontare una storia che punti il faro sui fallimenti dell'Onu e della comunità internazionale al completo.

Pochi giorni dopo, ho conosciuto un sacco di ragazze e ragazzi bosniaci, serbi, croati, kosovari, montenegrini, macedoni, che mi hanno dimostrato ancora una volta la coesione e la voglia di riscatto e giustizia delle nuove generazioni, ma questa è un’altra storia.

La storia che vorrei contribuire a far conoscere oggi, è quella dei Balcani, quella di Sarajevo, non solo la loro ferita più recente, ma tutta quella strada millenaria che li ha resi così unici e forti, così fieri e, finalmente, senza più paura.

Ma per conoscerla, per assaggiare il vero sapore di questo racconto, ancora una volta, non vi resta altro da fare che preparare uno zaino e partire.

sabato 11 luglio 2015

Srebrenica 20 anni dopo: 8000 morti più uno.

“Portatemi le sue ossa, le riconoscerò di sicuro” Hatidža Heren cerca ancora i resti del marito, 20 anni dopo, come centinaia, migliaia di altre mogli, madri, sorelle, figlie rese vedove e orfane da quella mattanza che, vent’anni fa i serbo-bosniaci hanno messo in atto nella cittadina della Bosnia orientale.

Vent’anni, sono passati solo vent’anni da quel massacro, dagli uomini bendati strappati alle loro famiglie per essere sistematicamente uccisi, o per scomparire su camion di cui ancora, ad oggi, non si conosce la destinazione.
8000 volti, passati in diretta in tv, 8000 volti ignoti, 8000 morti di cui si dimentica il nome, e un morto in più, illustre, pesante, seppellito insieme a decine di migliaia di persone nelle fosse comuni delle guerre balcaniche: L’ONU.
Mentre gli autobus pubblici portavano i musulmani bosniaci nei luoghi di esecuzione, mentre le milizie serbe fucilavano uomini 8 ore al giorno, con pausa pranzo, mentre gli Scorpioni e le Tigri si riprendevano mentre trucidavano ragazzi poco più che ventenni pensando di essere i nuovi Lazar l’ONU, la più grande organizzazione internazionale al mondo, è rimasta a guardare.
L’ONU è morta. Fra le granate di Sarajevo e sotto i proiettili di Srebrenica.

L’esperienza jugoslava ha messo concretamente in risalto l’inadeguatezza delle procedure decisionali delle Nazioni Unite e i risultati fallimentari delle operazioni di polizia internazionale per pacificare un conflitto, dopo la gestione positiva di alcuni conflitti (Angola, Salvador, Cambogia Mozambico)  e la relativa aspettativa.
Con le guerre degli anni ’90 aumentarono le guerre interne agli stati, etniche, religiose, ed emerse la necessità di un ONU fautore del peace building, promotore delle condizioni che garantiscano la pace attraverso la stabilizzazione socio economica, oltre che del peace keeping, il mero mantenimento della pace.
A portare a questa prematura dipartita una serie di concause: il sacrificio dell’azione multilaterale a favore di quella nazionale in seguito all’incapacità di conciliare le posizioni diverse degli stati membri, con la testa chinata davanti all’intervento esterno USA, la carenza strumenti completi per adempiere a propri compiti istituzionali, l’incapacità di preservare le “Safe Areas”.
Srebrenica, prima del genocidio, faceva parte di queste aree sicure, ma quando i soldati di Milosevič sono entrati in città avviando una delle pulizie etniche peggiori della storia non c’erano abbastanza soldati per evitarla, visto quanti pochi paesi membri ne avevano inviati. E d’altro canto, nella divisione forzosa decisa dalla risoluzione ONU Srebrenica faceva parte dell’area destinata ai Serbi.
Quando nel ’92 si è tentata la riforma di questa imponente organizzazione per spingere il peace building e ridurre lo strapotere Nato, gli Usa, ovviamente, misero il veto. Ma la riforma democratica non fu sostenuta dai governi occidentali in primis. Imbrigliato dalle politiche nazionali dei singoli paesi l’Onu scrisse il proprio fallimento, che portò ad un’azione in Jugoslavia vittima di limiti politici, istituzionali e militari.

E questa morte cerebrale si manifesta ancora oggi, vent’anni dopo: l’8 luglio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Gran Bretagna ha proposto una risoluzione di condanna del genocidio di Srebrenica. E’ stata respinta, a causa del veto della Russia.  E credetemi, non v’è dubbio sul fatto che quello di Srebrenica sia stato un genocidio: se non bastassero 8000 lapidi ci sono anche due condanne, da due diversi tribunali internazionali per i crimini di guerra. Ancora una volta l’Onu ha fallito, incapace di superare le divisioni interne e di evolvere rinunciando al diritto di veto nel caso di dibattiti sui crimini di guerra.
Dalle ceneri dell’Onu, forse, quello che potrebbe germogliare è un nuovo ruolo dell’UE: spingendo un avvicinamento dei Balcani all’Unione, sviluppando partnership significative, e sostenendo la tangibile richiesta di riforma che proviene dalla base. Anche se il potenziale di aggregazione dei Balcani ha subito una battuta di arresto dopo la crisi economica, il ruolo della società civile continua ad essere cruciale in un panorama di integrazione, e le istituzioni europee, pur con i limiti che ben consociamo, continuano a dimostrarsi più sensibili al passato e al futuro di queste terre così vicine e pure spesso così lontane.
Mentre la mozione all’ONU si arenava infatti, il Parlamento Europeo ha adottato una mozione di ferma condanna per il genocidio, dimostrando un concreto impegno verso la giustizia e contro il negazionismo.

Portatele in Europa dunque, le ossa dell’Onu, affinché possiamo riconoscerle, e da quelle far nascere un nuovo assetto della politica internazionale, in cui la società possa avere successo, laddove le istituzioni hanno fallito.


Per chi l'avesse dimenticato, alcune immagini per ricordare cos'è successo in Bosnia:

Per chi vuole seguire le evoluzioni del processo balcanico:

mercoledì 8 luglio 2015

Orti, attenti, via!

Non sarebbe divertente raccogliere i pomodori e l’insalata per cena nell’aiuola della fermata dell’autobus? O uscire sul balcone per prendere una manciata di basilico fresco per la spaghettata con gli amici a Mezzanotte?

E non sarebbe bello risparmiare sulla spesa al market sotto casa perché le zucchine crescono sul nostro tetto o nell’orto verticale sulla parete vicino all’entrata del condominio?
Lo so che l’immagine fa molto villaggio dei puffi ma in effetti gli orti urbani, i giardini verticali e le aiuole coltivate a patate si stanno diffondendo in molte città del mondo, seguendo movimenti che li vedono come manifestazioni di una nuova economia condivisa o semplicemente i desideri di singoli che vogliono ritrovare il rapporto con la terra un’alimentazione più sana e abbattere i costi sociali oltre che personali della produzione industriale degli alimenti.
Per molti l’orto sta tornando ad essere non solo luogo di produzione di ortaggi freschi, sani e saporiti ma anche una finestra aperta sulla natura e i suoi preziosi insegnamenti. Per alcuni queste esperienze stanno diventando il mezzo per riqualificare spazi urbani abbandonati, per riunire comunità in un’atmosfera di collaborazione, per affrontare le conseguenze della crisi economica sulla produzione e sulle infrastrutture.
Gli orti urbani si stanno diffondendo rapidamente, anche all’interno di grandi metropoli, e anche qui, a Trento dove c’è qualche novità nell’aria: chissà che la nuova rivoluzione non venga portata avanti proprio a colpi di carote, pomodori e piante di lattuga.
da "Concerto Fra gli Orti" a Mezzocorona Ph Liviana Concin

Tutti, ma proprio tutti, possiamo fare parte di questa rivoluzione che è anche un po’ un ritorno alle origini, perché asta piantare qualche seme, in giardino, su davanzale della finestra, sul balcone, nell’aiuola vicino casa, nei cortili delle scuole, nei cantieri abbandonati, nelle carceri.
Perché per iniziare a fare un orto urbano basta mettere in terra qualcosa di pronto a germogliare. Anche quello spicchio d’aglio che sta facendo radici in fondo al nostro frigo o quelle cipolle dimenticate nella dispensa.
Anche perché coltivare qualcosa è un gesto di grande libertà: un ortaggio, un fiore in una pianta aromatica: non dobbiamo niente a nessuno, solo alla terra: non dobbiamo pagare tasse, fare file al supermercato, stare a regole fissate da altre: le uniche regole che vanno seguite sono quelle della natura.
Non per niente infatti attorno agli orti urbani e ai movimenti che coltivano gli spazi abbandonati nelle città si stanno unendo persone con una nuova idea di comunità e di società oltre che id produzione. E’ il caso per esempio delle Transition Town, del commons collaborativo, degli orti  nelle aiuole di Londra, sui tetti di New York, nei cantieri di Milano, nelle fabbriche in rovina di Detroit.
In questa rivoluzione che si fa brandendo una zucchina o un gambo di sedano che sta contagiando tutto il mondo anche Trento fa a sua parte. La fa con i tanti cittadini di tutte le età che coltivano il proprio orticello vicino casa o negli spazi concessi dai comuni, ma anche con progetti inediti, come quello dei Richiedenti Terra, che a Trento, vicino alla fermata del treno di Villazzano hanno messo in piedi un Orto Comunitario che produce cibo genuino ma anche uno scambio di saperi e socialità.
Il progetto nasce con l’obiettivo di favorire la socializzazione attraverso il recupero di attività di agricoltura contadina, che sviluppi nei partecipanti conoscenza del territorio e senso di cittadinanza. La presenza nel gruppo di persone “richiedenti asilo politico” ha dato lo spunto per la definizione del nome del gruppo: “Richiedenti Terra”.

Questa green revolution sta germogliano un po’ ovunque insomma, bastano un pugno di terra, e un seme. Su Wikihow si trovano facilmente informazioni su come coltivare anche con poco tempo e poco spazio una grande varietà di ortaggi.
Per ispirazione segnalo un paio di blog: quello delle transition towns di rob hopkins e il blog “ghost town farm” per scoprire come una ragazza con una manciata di semi stia cambiando la fisionomia di Detroit dopo il fallimento.
Seguite anche i localissimi richiedenti terra, perché oltre che un pezzo di terra possono offrirvi anche un pezzo di torta o uno spritz nei bellissimi eventi che organizzano.


Ancora una volta, anche solo piantando un seme, anche con le bombe di fiori del guerrilla gardening da lanciare negli spazi più grigi delle nostre città possiamo essere parte di un nuovo modo di vivere e concepire la società, e senza accorgercene quasi saremo più green, più collaborativi e vedrete, finiremo anche col divertirci un sacco. 

giovedì 11 giugno 2015

Social Menti Utili

Genialate e idiozie da social network.

Ogni grande rivoluzione tecnologica e sociale è stata preceduta da una grande rivoluzione di comunicazione. Senza i collegamenti transatlantici, il telegrafo, il telefono le rivoluzioni industriali, i boom economici e democratici dell’ultimo secolo e mezzo, perfino le guerre, sarebbero andate diversamente.
Se non avessimo mai visto le foto dai campi di concentramento, la seconda guerra mondiale sarebbe andata nello stesso modo? Magari no, magari vivremmo in un mondo come quello ipotizzato ne “La svastica sul sole” più di 50 anni fa.

Comunicare, condividere non solo è parte del nostro essere animali e umani, ma è un elemento imprescindibile della nostra società e della sua evoluzione.
Ma vi confesso che negli ultimi tempi a giudicare dalle nuove forme di comunicazione mi sto convincendo sempre più che andiamo verso una rivoluzione di idioti, creduloni e fanfaroni.


Vi descrivo la scena che mi ha fatto precipitare definitivamente in questa convinzione:
Interno, giorno, La BisbEtica naviga su Facebook cercando una scusa per non studiare inviando oziosamente inviti ad uno spettacolo di Ascanio Celestini.
Sulla bacheca appare, ben 2 volte, il post del secolo: foto di repertorio di bambini, somali credo, che tendono le braccine scheletriche verso del cibo, con costole a vista e visi disperati, nella cornice nera del post auto prodotto con la frase: Facebook donerà 1 euro per ogni condivisione per sfamare questi poveri bambini.
Millemila condivisioni.
Davvero? Il mio amico Emiliano mi perdonerà se uso la sua parola feticcio ma, davvero?
Davvero ci credete che condividendo una foto, che per altro è del 1991 (quei bambini se sono stati sfamati adesso sono ultratrentenni e altrimenti direi che è troppo tardi), questa fantomatica entità sovrumana chiamata FEISBUC donerà dei soldi a degli imprecisati bambini africani affamati?
Per carità, in Africa i bambini, e gli adulti, che muoiono di fame ci sono ancora, davvero: sono gli stessi che annegano sui barconi che attraversano il Mediterraneo, sono gli stessi che vengono qui a “rubarci il lavoro”, sono proprio lì, su quelle carrette del mare che la Meloni vuole bombardare.
Ci sono bambini che muoiono di fame e malnutrizione anche in Asia, Nel centro e sud America, nell’est Europa, nelle periferie delle grandi città.
Sono lì, non in quella foto.
Credete davvero che i chirurghi aspettino in sala operatoria di vedere salire i like sotto la foto di un bambino ritratto in primo piano con la cannula dell’ossigeno per iniziare a operarlo?

Da questo momento di estrema dimostrazione del fallimento del darwinismo sono partite alcune elucubrazioni: quand’è che l’utilità di questo nuovo e fantasmagorico strumento dell’internet si è trasformata in un megafono per cretini?
C’è qualcosa di molto sbagliato in come si stanno evolvendo le comunicazioni sui social: migliaia di persone che vomitano la loro vita privata in bacheca, anoressiche che postano le foto dei loro pranzi da McDonald’s, Marie Goretti che a mezzanotte letto, coperta, camomilla che hanno la bacheca intasata di foto di cocktailoni in primo piano, personaggi incapaci di distinguere la congiunzione disgiuntiva “o” dalla voce del verbo avere “ho” che pontificano sull’italianità, centinaia di foto identiche di gente che corre mentre gli spruzzano addosso del colore.
Il problema, vero, è che io di queste cose ne parli e ne scriva. Che veda più spesso i post che ci mettono in guardia dalle arance infettate col virus HIV che vengono dalla Libia, le Bufaline, che quelli che mettono in guardia sul surriscaldamento globale, dicesi signor Reale.
Che abbia la bacheca intasata da re-post di Salvini, nonostante il mio minuzioso e continuo lavoro di pulizia della friends list, più che da quelli di Gino Strada.
A dire il vero il dramma è che io, come tutti voi, per comunicare usi termini come post, re post, like, e friends list.
Mi fa rabbia che il tempo, tantissimo, che passiamo sui social network, si riempia di bufale colossali pompate da inguaribili creduloni, su morti di personaggi più o meno famosi, sull’UE che vieta di coltivare l’orto in casa, sulle scie chimiche, che le notizie non servano per tenere informata la società ma siano impostate ad arte per scatenare i leoni da tastiera in centinaia di commenti aggressivi, sgrammaticati, inutili.

Avete la soluzione per tutto? Per l’immigrazione, per la crisi, per le aggressioni dell’orso, per i matrimoni gay, per curare il cancro con il bicarbonato?
Datevi da fare, entrate in politica, aprite una clinica di cure a base di cremine antiage che tolgono 90 anni di rughe in 90 secondi, polverine per dimagrire, frullati di proteine per scolpire, e mi raccomando, tutto questo continuando a dire che omeopatia e fitoterapia sono “robe da coglioni”.

Mentre mi stavo slogando Atlante e Epistrofeo a forza di scuotere la testa in segno di disgusto però, forse per il movimento della mia materia grigia in tutto quello spazio vuoto, ho avuto la vera illuminazione.
Non dovrei essere lì, a leggere le bufale, a deprimermi per il QI medio dei miei connazionali, ad augurare iettature a certi idioti.
Perché questi strumenti, internet, social, e quant’altro, sono sì i grandi veicoli della rivoluzione del nostro tempo, ma sono pilotati, male, e con i soliti sistemi, tutt’altro che rivoluzionari.
La “gratuità” delle ricerche su Google, dei nostri diari su Facebook, delle nostre belle foto su Instagram la paghiamo con le nostre informazioni, e spesso con la nostra libertà.

Credete davvero che la visibilità di eventi, personaggi, notizie, dipenda dal loro valore? Col cavolo. Dipende da un misterioso algoritmo che sostanzialmente funziona in un modo solo: paga, e fa ciò che vuoi.
Bello questo concerto con 8000 partecipanti: paga e fa ciò che vuoi.
Interessante questo post con 1500 like: paga e fa ciò che vuoi.
Che seguito questo personaggio, 30.000 follower: paga, e fa ciò che vuoi.
E questo meccanismo contagia, giornali, radio, televisione, siti di informazione.
E allora che ci faccio qui, su un blog a scrivere un post che finirà poi su un social network?
Perché credo che siano le persone a decidere come usare le cose, e non il contrario.
Questi strumenti, che sono solo questo, strumenti, come una forchetta, un’accetta, una pala, possono essere usati nel male, o nel bene. Sono io che decido se usare la forchetta per papparmi una fiorentina o un’insalata, non è la forchetta che è vegetariana, sono io che decido se usare l’accetta per uccidere mia moglie e la pala per far sparire il corpo, o di farne strumenti per costruire la casetta sull’albero dei miei figli.
Sono io che posso decidere di usare internet, i social network , questo potentissimo strumento per fare informazione vera invece che per diffonder bufale, per creare una rete di economia collaborativa invece che un network marketing, di usare Youtube per condividere conoscenza a livello globale con i MOOC invece che per guardare i video di Andrea Diprè.

E’ l’era del digito ergo sum, e allora possiamo scegliere di essere quelli che scommettono sui pro di questo strumento, invece che sulle sue, innumerevoli, pecche e strumentalizzazioni.
Alcune belle cose che possiamo fare con questi strumenti, diversamente da dieci anni fa: finanziare, davvero sta volta, progetti ecampagne con il crowdfunding, regalare e ricevere in regalo, condividere, prestare, vestiti, case,  macchine, viaggi, vacanze,  cibo nelle piattaforme di sharing economy e commons collaborativo, informarci, seriamente, su quello che accade dall’atra parte del mondo come se succedesse nel cortile di casa e interrogassimo la nostra vicina impicciona. Lanciare e sostenere campagne chespostano opinioni, e a volte salvano vite.
Accendiamo il cervello prima che lo smartphone la mattina, la coscienza prima dello schermo del computer.
Perché una rivoluzione la fanno le persone che la vogliono, non gli strumenti che la veicolano.


Ah, e se ve lo state chiedendo, sì, è proprio di voi che stavo parlando.

mercoledì 3 giugno 2015

Meravigliosa fatica

Fatica.

Fino a qualche anno fa la prima parola che mi veniva in mente quando guardavo uno spettacolo teatrale, una performance, un balletto, era bellezza. Ora quando guardo un attore su un palco, una ballerina sulle punte, un circense sul filo penso “Fatica”.

Dopo tante esperienze da spettatrice e qualche sporadica da protagonista vedo quanta fatica, quanto amore, quanto sforzo, quanto impegno, quanta dedizione si nascondono dietro quell’unico gesto perfetto, dietro il tono giusto con cui lanciare quella frase nella platea, dietro il balzo armonioso di una ballerina.
Non solo i muscoli che si contraggono, la concentrazione fra le pieghe del volto, il sudore che cola sulle fronti, vedo lo sforzo che sta dietro, dietro al sipario, dietro agli applausi, ai costumi di scena al respiro profondo prima del balzo.

Gli anni per imparare un passo, i mesi per trovare il risuonatore giusto con cui dire una battuta, i giorni passati a riprovare un numero, una nota, le domeniche investite per trovare l’energia perfetta per raccontare la storia.


Vedo la dedizione di chi compie lo sforzo ulteriore di unire all’amore per l’arte quello per il messaggio, l’ardore negli animi di chi mette in scena uno spettacolo di teatro civile, fra le note di un musicista che racconta una storia. Riesco a scorgere quanto si possa essere nudi e soli dietro a una maschera di fronte ad una platea gremita.

E’ in questa fatica che vedo la bellezza. La percepisco ogni volta che una battuta colpisce uno spettatore aprendo per un secondo uno spiraglio sull’immenso lavoro che c’è dietro, al momento in scena, alla mezz’ora sul palco, sento la purezza del lavoro dell’artista quando una nota si fonde a una parola e a un movimento per diventare qualcosa di molto più grande: una scintilla di universo.

Da questa fatica, da questa bellissima fatica, mi lascio travolgere quando sono spettatrice, quando di fronte a me c’è chi mette in gioco se stesso non per gloria, non per fama: perché non potrebbe fare altrimenti.
E’ questa, questa la bellezza che salverà il mondo di cui parlava Dostoevskij, la bellezza dello sforzo di dar vita a amori, orrori, ideali, avventure, magie, microcosmi e universi, di fare della propria carne la carne del mondo.

Lì c’è verità, lì c’è bellezza. Premiamo questa fatica, ogni volta che possiamo.
Anche perché, c’è tutta un’altra fatica, ancora più invisibile: quella di chi si impegna perché tutta questa bellezza arrivi a portata di mano, e di cuore, per ognuno di noi.

Qui, vicino a casa mia, fra Mezzolombardo, San Michele e Mezzocorona, sta per iniziare un festival, Solstizio d’Estate, che da 25 anni porta musica, teatro e danza in paesi da poche migliaia di abitanti. E’ il risultato di mesi di lavoro, di volontari, di giovani, che credono che valga la pena perdere, serate, notti, settimane d’estate per potare in scena chi racconta storie. Che credono che questa bellezza meriti tutte le loro energie, anche se in platea dovesse esserci un solo spettatore ad applaudire per quella splendida fatica.

Orti urbani, bombe atomiche, circhi, giardinieri nomadi, reginette di bellezza, orrori, stupori, suicidi, germogli, coltivatori di alberi secchi, pescatori di anime, cantastorie d’estate, amore, disamore, violenza, coscienza, sentimenti, dialoghi, pentimenti, nani, ballerine, fantasmi, fenomeni da baraccone, pianoforti, chitarre, voci, spartiti, copioni, attori, musicisti, cantanti… storie.
Quanta fatica ci vuole per farli stare tutti su un palcoscenico lungo più di un mese?
Tantissima, per fortuna, perché la fatica è bellissima da vedere.

E se credete, come me, che la bellezza salverà il mondo, venite a vedere cosa c’è dietro questo sipario, allora.
21.30.

Mezzocorona.